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UNDERGROUND
(UNDERGROUND)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 maggio 1995
 
di Emir Kusturica, con Miki Manojlovic, Lazar Ristovski, Mirjana Jokovic (Francia - Jugoslavia, 1995)
 
Il regista Emir Kusturica
I due film che hanno dominato Cannes 95, e segnato l'incontro che si vorrebbe più frequente fra finzione cinematografica e tempo presente appaiono contemporaneamente sui nostri schermi. Occasione eccitante: non fosse che per constatare quanto siano eguali e simmetrici. E, al tempo stesso, perfettamente opposti.

Eguali, perché si pongono l'interrogativo che continua ad essere quello di ogni europeo: perché la Jugoslavia? Opposti, perché - piccola consolazione che ci offre ogni comparsa del miracolo artistico - risplendono della diversità fra il cinema nobilmente glaciale, monolitico di Angelopoulos e quello straripante, generoso fino allo spreco, eppure altrettanto elevato di Emir Kusturica. Un greco ed un serbo, entrambi chinati sulla tragedia che ci concerne tutti.

Entrambi che si servono della metafora, costruiscono un discorso che volge le spalle ai limiti del realismo per proiettarsi nelle dimensioni liberatorie del fantastico: ma con la coscienza di condurne continuamente un altro, tremendamente radicato nella realtà. E se il primo distilla con il contagocce, con una disciplina quasi sadica il risultato della proprie alchimie, il secondo si lascia andare alla suggestione delle immagini, del loro avviluppo, delle musiche, degli umori, gli odori, le fughe oniriche con un piacere ed una rabbia, un'energia ed una golosità che non sono solo del grande creatore, ma di tutta la cultura che gli sta alle spalle. Quella di un Paese del quale Kusturica - confini, razze, ideologie confuse - piange la scomparsa; ridendo, cantando quella fede pagana che rifiuta di cedere alla disperazione.

Non a caso i capitoli di questo affresco gigantesco (5 ore e 40 la prima versione, 2 e 47 questa definitiva... ) s'intitolano successivamente La Guerra, La Guerra Fredda, ed ancora La Guerra: nato nel segno del mitico "c'era una volta un Paese" quella di Kusturica è la cronaca di un ineluttabile ricominciamento. Non solo della Storia: il bombardamento di Belgrado e l'invasione nazista, l'organizzazione della Resistenza, la modernizzazione del paese, l'autogestione, lo stalinismo che è il vero bersaglio del film (al di là delle assurde polemiche serbo-bosniache che ne hanno accompagnato l'uscita). Ma della natura umana, delle sue contraddizioni: con la vicenda - tragicomica, surreale, ripetitiva, enorme, come tutte quelle di un autore che preferisce i propri personaggi alle loro storie - di Blacky e Marko. Due resistenti, due trafficoni, due "amici" che Kusturica inserisce in una sarabanda di musiche e di danze, di lacrime e risate, di nascite e di morti, di copule e contemplazioni poetiche, intuizioni visionarie e distruzioni terrificanti. Di cerimoniali: come quelle nozze che ritornano tre volte nel film, a ritualizzare esistenze sconsiderate, a proiettare nel futuro situazioni altrimenti disperate.

Film pantagruelico, costantemente sopra le righe, immenso ed eccessivo, UNDERGROUND trova un suo impossibile amalgama grazie ad alcuni elementi (la straordinaria musica tzigana, ad esempio, che una banda di ottoni forsennati scandisce con la stessa, indimenticabile energia che anima l'autore; o l'impagabile tono burlesco, l'amoralità grottesca, l'anarchia delle fughe surreali, la sensualità sfrontata) che imprimono al film una loro logica, una coerenza che il temperamento debordante del regista non avrebbe potuto reclamare altrove.

Dalle prime sequenze del bombardamento, lo spettatore è immerso in un universo d'invenzioni ininterrotte: sotto gli Stukas d'epoca protagonista si fanno il guardiano dello zoo e il piccolo scimpanzé dalla madre dilaniata da una granata, gli animali che dalle gabbie divelte irrompono fra le rovine della città, gli elefanti, i leoni, le zebre che vagano tra i falò di una visione apocalittica da antologia.

Scivoliamo allora più sotto, nelle cantine, nei sotterranei della città: gironi danteschi nei quali gli abitanti si rifugiano per sopravvivere ("l'intero comunismo era una caverna"), meandri dostojevskiani nei quali Marko rinchiude l'amicone Blackie, assieme ad un gruppo di Resistenti. Per 20 anni Marko - divenuto alla fine della guerra un apparatchik di Tito - farà credere a Blackie ed a tutti gli altri sventurati che sopra, dove splende il sole, ci sono ancora i nazisti. Per far soldi, diventare produttore cinematografico e godersi l'amica di Blakie gli basterà far risuonare di tanto in tanto Lili Marlène, ululare la sirena, trafficare l'orologio del tempo. Mentre di sotto partoriscono, fabbricano armi sulle note travolgenti degli tzigani, sopra muore Tito: ed è infine giunto il tempo d'uscire, i ventenni per la prima volta, a confondere la luna ed il primo sole quando nasce, i cerbiatti con i cavalli

È ormai Sarajevo, Marko uno spacciatore di droga in Mercedes, e Blakie un kamikaze guerriero assetato di sangue che non possono più che distruggersi: "un fratello che uccide il proprio fratello, è questa la guerra vera". Il tempo di un ultimo ballo sfrenato, gli ultimi canti con gli squilli delle fanfare impazzite, un'escursione sott'acqua come quella de L'ATALANTE di Vigo messa apposta per dimenticare e rigenerarsi e siamo all'ultima, ormai celebre sequenza. Mentre fervono le danze attorno alla tavola nuziale, trema la terra, si stacca quel pezzo di riva che regge il piccolo gruppo di sopravvissuti: e quella sorta di zattera si allontana galleggiando, portandosi appresso gli echi dei canti, il furore delle genti, l'odio e l'amore, il silenzio ed il frastuono del film.

L'eco di un Paese che non esiste più: se non nel ricordo dei suoi artisti. Come questo: eccessivo, esaltante, magari anche irritante, ma che rifiuta il rimpianto. Che dichiara, a chi vuole ascoltarlo: "J'emmerde le Pays qui exige que je meure pour lui!"


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